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Roberto Denti e Gianna Vitali

22.05.2013 - Roberto Denti ne ha fatte più sbagliate che giuste

Il ricordo personale di Matteo Corradini.

Roberto Denti ne ha fatte più sbagliate che giuste. Aprire una libreria per ragazzi è stato forse l’errore più grande. Una follia. A me stava antipatico. Perché era di Cremona, e io da piacentino della campagna… figurati. Mi telefonava per raccontarmi di quando da giovane scavallava il Po e veniva a cercare morose nella mia provincia. Ci veniva in bicicletta. Diceva che da noi le ragazze erano più belle, e si mangiava meglio. Non gli ho mai creduto. Mi stava antipatico perché ogni volta che cercavamo di parlare di libri si parlava d’altro. Di cime del Rosa, di partigiani, di Don Chisciotte della Mancia (che è un libro, d’accordo, ma non ne parlavamo come se lo fosse), di incendi inesistenti in posti inventati, di Pasolini (che ha scritto libri, ancora d’accordo, ma non parlavamo di lui in quel modo), di Gianna, di come l’aveva conosciuta, di un suo figlio che insegna a Parigi, di cose ebraiche, di feste, di tradizioni, di anolini, di cenerentole, degli islandesi che non han mai fatto la guerra perché non hanno una religione. E io che gli dicevo: ma Roberto, sei fuori: hai presente che freddo che fa? A me la voglia di fare la guerra non verrebbe.

Mi stava antipatico perché era uno attaccato alla poltrona, alla sua poltroncina in libreria. Quando entravi nel pertugio per andarlo a trovare ti faceva sedere, ed era come se i libri tutti intorno non esistessero più, erano tutti nella sua testa e sui braccioli delle poltrone, vecchie e consunte, proprio come Roberto. Ci aveva appeso una foto che avevo scattato sulla spiaggia di uno sbarco in Normandia. C’era un bambino con un costumino rosso. Ed è questa qui.

Lui aveva capito male e credeva che fossi io da piccolo. Non gliel’ho mai spiegato, perché in fondo la verità tra noi due è sempre c’entrata poco. Contava quella straordinaria bugia che tutti noi ci raccontiamo, e che ci fa vedere le cose come cose poetiche, e il mondo come un luogo da dire, spiegare, trasformare in parole. Anche la morte, a modo suo, è poetica.

Era curioso di tante cose. Al mare, la prima volta, a Sestri Levante: ci eravamo stretti la mano da poco e gli davo ancora del lei. Al cocktail del premio Andersen speravo di parlare con lui di libri, novità. Non lo conoscevo ancora: parlammo di castagnaccio, e di come lo si chiama a seconda delle città. E se va fatto col latte o senza, e che una volta era davvero grammo come si dice. Tornai a casa sconclusionato.

Mi era antipatico perché si ricordava, e si ricordava anche di me. Mentre io di lui mi dimenticavo. Perché io sono giovane, mi dicevo, e ho tante cose da fare. Lui è vecchio e ha tutto il tempo: invece di sedersi sulle panchine a guardare i piccioni, come dovrebbe fare, gioca a fare il libraio e a legger libri. Era l’esatto contrario, avevo molto più tempo io. Davanti alla libreria nuova c’era un ristorante piacentino e per gioco mi ci aveva portato. Era gestito prima da due lodigiani (sacrilegio) e poi da indiani o pakistani, vai a sapere. Roberto, mi hai fatto guidare un’ora di macchina per venire a bere il vino che mi versano dietro casa. Quel giorno, sulle scale della libreria, perse l’equilibrio e si ferì a una mano. Non si fece soccorrere, perché era antipatico anche nel non farsi aiutare, ma fu la prima volta che vidi la sua età. Prima non ci avevo fatto mai caso, e mentre si fasciava lo guardai per la prima volta come anziano. E ne ebbi orrore, di quel pensiero. Come se la vita, e tutto quello che le compete, avesse bussato di colpo alla porta, di notte, e fosse venuta a dirci che prima o poi capita a tutti. Tornai a casa triste. Sono cose che non dovrebbero mai succedere: invecchiare, indebolirsi, ferirsi.

Eppure è tutta la vita che ci alleniamo a farlo, e non siamo forse mai pronti. O forse siamo pronti e spacconi e spavaldi solo quando l’anagrafe gioca per noi. Dopo no. E da giovani è tanto facile dire ai vecchi cosa fare. Mi stava antipatico, Roberto, perché non s’è mai arreso. Lo vedevi dappertutto, fino in ultimo. E dentro di me pensavo: deve fermarsi, deve arrendersi. È vecchio, è anche stanco. E comincia a essere ripetitivo, non può farsi ricordare così. E poi è ora che quella sua generazione lasci il posto ad altri. Ma chi sono gli altri? Nessuno. Ma son nessuno perché son nessuno o perché Roberto fa ancora tutto lui? Ma questi son discorsi che fai a 38 anni, non quando ne hai cinquanta in più. Perché in fondo aveva ragione lui, a non fermarsi. Magari a suonare una vecchia canzone di cui tutti sapevano già le parole, ma a suonarla ancora, dai, faccela sentire. Raccontacela ancora la storia della scarpetta di Cenerentola e del suo principe, che per te era tutta una metafora sessuale nemmeno troppo velata. Non ti ho mai creduto, e me l’avrai raccontata minimo sedici volte. E secondo me non ci credevi nemmeno tu. Però ci mettevi alla prova, e vedevi fino a che punto qualcuno si imbarazzava tanto da dirti basta, dai.

L’unica volta che ho fatto un incontro da te, in libreria, c’erano quattro persone. Mi dispiaceva tantissimo. Anche tu eri dispiaciuto. Anche perché una delle quattro eri tu. Quando lavoravo per Editoriale Scienza come ufficio stampa (pochi mesi) ti avevo chiesto di raccontare un po’ di cose a Bologna. Attendevo un lungo intervento formale. Avrei dovuto fotografare le facce delle maestre a cui tu raccontavi di quando da piccolo ti dedicavi a te stesso, in quel modo che rischia di far diventare ciechi. Mi sei stato antipatico da subito, perché se chiunque di noi raccontasse in pubblico le stesse cose verrebbe preso per maniaco porco, forse denunciato. Ma tu no, trasformavi le cose in poesia, umanità, verità. C’era una poesia perfino in quello, nell’angolo più buio, in quello che non si poteva raccontare. Forse ci mettevi alla prova.

Come vederti magro e stanco in giro per la Fiera. I nostri cuori te lo dicevano di andarci piano, ma no. Ma chi stavi a sentire? C’è che forse ognuno si aggrappa a quello che può, a quello che ha. E Roberto, credo, non s’è mai aggrappato ai libri. Per lui erano come ascensori, per andare su piani diversi, vedere il panorama altrove. Ma chi si affeziona a un ascensore? Lui si affezionava, mi pare, a quel che i libri accendevano, suscitavano, si affezionava a chi li aveva scritti o illustrati, a chi li aveva letti, a chi li aveva consigliati. Probabilmente mi sbaglio, ma a Roberto Denti dei libri, da soli, non importava nulla. Anche per questo m’era antipatico.

Quando hai l’età di Roberto la tua vita e le tue scelte non sono più due affari separati. Non puoi più permettertelo. La tua vita sono le tue scelte, e fermare le gambe avrebbe voluto dire fermare anche il cuore. Per me ha tirato dritto per un unico motivo: per far vedere a Gianna ancora un po’ di mondo, per non farsi curare, per non costringerla, lei più giovane, a fare in anticipo la vita della vecchiaia, dell’abbandono, della riservatezza. Anzi, a non farla mai. A costo di perderci, mostrarsi fragile, finire al tappeto più spesso, passare per quello che c’è troppo, che è ancora lì. Dai, raccontacela ancora.

Adesso è l’ora dei davvero antipatici ciao Roberto. Ci mancherai Roberto. Ma ciao cosa? Ma ci mancherai cosa? Le rockstar se ne vanno giovani perché fino a quei 27 anni si sono spremute, e han fatto coincidere vita e arte, vita e deviazioni, fino a morirne. Credo sia stato così anche per Roberto, che ha fatto coincidere vita e scelte fino a viverne, e a viverne perfino di più di quanto forse madre natura avrebbe scommesso. Non ci mancheranno i suoi modi burberi, ci mancherà la sua poesia, e il suo modo di interpretare le cose. Lo guarderemo andarsene con nostalgia anche per noi, perché lui che se ne va ricorda anche a noi che il tempo è passato, che la strada ora fa una curva e non lo vedi più, il percorso che ti ha portato fino a qui. Che è passato lui e con lui sei passato un po’ anche tu, che s’è ferito lui e con lui ti sei ferito anche tu. Ciao niente, mi mancherai niente. Ci mancherà solo quel pezzo di noi che ti porti dietro.

Ho un solo autografo suo, me lo mandò con la prima edizione di I bambini leggono. Non c’è la dedica, c’è solo scritto sotto: pag. 50. E pagina cinquanta è questa:

L’ultima volta che l’ho visto gli ho detto: ti passo a trovare. Gli ho dato buca, non ce l’ho fatta, ero altrove.

Ora è lui ad essere altrove, in un chissà dove che nessun libro racconta. Non potrò rimediare.

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